Tratto da: Lastampa.it - cronache
In tutto 30 i sopravvissuti, 1.917 persone inghiottite dal fango
In tutto 30 i sopravvissuti, 1.917 persone inghiottite dal fango
ROMA
Ore 22.39, 9 ottobre 1963, Longarone.
«Ero a letto, avevo 12 anni, stavo aspettando mio papà che tornasse con la mamma. Mio papà lavorava in diga, era uno dei controllori. Aveva iniziato il turno alle 14, alle 22, finito il turno, avrebbe percorso come sempre i dieci chilometri che distavano dal paese e sarebbe andato a prendere mia madre, che lavorava nel centro di Longarone. Si facevano sempre una passeggiata romantica a piedi per ritornare a casa insieme. Erano due innamorati. Ho sentito arrivare papà, da solo, e poi subito andare via con la macchina. Dopo 5 minuti un tuono fortissimo, pensavo fosse il temporale. Anche mia nonna lo pensava, è entrata in camera mia e ha detto chiudo le imposte arriva il ...non ha fatto in tempo a finire la frase. È andata via la luce. Ho sentito come se la mia faccia fosse tirata per i capelli, c’era come un buco che mi voleva risucchiare e la stanza che si allargava e poi restringeva. Il viso come una medusa, appiccicoso e tirato. Avevo le mani lungo i fianchi ma ho avuto un moto di ribellione e ho alzato le braccia davanti a me: dovevo toccarmi il viso, credevo di non averlo più. Così mi sono salvata, sono riemersa da sotto terra, ero stata spazzata via, lontano 350 metri da dove era la mia casa, il mio letto, ero sepolta da fango e acqua. Ma l’acqua non la ricordo, non ricordo il bagnato. Ora dopo 45 anni, devo dormire con la finestra sempre aperta, non riesco a farmi il bagno in una vasca, per bere un bicchiere d’acqua ho bisogno di fare piccoli sorsi, mi manca il respiro. Il mio sogno sarebbe quello di diventare una subacquea».
Lo racconta così il suo 9 ottobre di 45 anni fa Micaela Coletti, presidente del Comitato sopravvissuti Vajont. Domani è il 45simo anniversario del disastro del Vajont che inghiottì 1917 persone. Sono rimasti in 30, i sopravvissuti, quelli usciti vivi dalle macerie di detriti e fango. Altri, superstiti, perché migranti all’estero, per lavoro, ma quella notte hanno perso le loro famiglie. «Ricordo tutto, avevo dieci anni, dormivo con mio fratello di tre anni, i miei genitori erano nell’altra stanza - racconta un altro sopravvissuto Gino Mazzorana, vicepresidente del comitato - all’improvviso un forte vento, la casa ha tremato, pensavo ad un terremoto. Sono volato via, mio fratello mi è sfuggiro dalle mani. Ho fatto un volo di duecento metri. Ho chiamato mia madre, «aiutami, portami via»; poi alle tre di notte ho intravisto le lucine delle torce dei soccorritori, come fiammelle».
Il 9 ottobre 1963 alle 22.39 una massa di due chilometri quadrati di superficie e circa 260 milioni di metri cubi si stacca dal monte Toc - «marcio» in friulano - e precipita nel bacino artificiale creato dalla diga del Vajont. La frana solleva un’onda di circa 50 milioni di metri cubi di acqua, che si innalza per 160 metri e poi ricade nel bacino, e in parte oltrepassa la diga e con il suo carico di detriti e fango schiaccia i paesi a valle: Longarone - che conta l’80% delle vittime - le frazioni di Rivalta, Pirago, Faè e Villanova; il Comune di Castellavazzo, dove Codissago fu il paese più colpito; Erto e Casso furono risparmiati dalla furia delle acque, ma non così le frazioni vicine con 158 morti a Frasègn, Le Spesse, Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino. Anche il cantiere della diga fu travolto e con esso 54 operai.
Circa 1500 le salme recuperate, quasi la metà non sono state riconosciute. «Ho perso due fratelli e una sorella, mia madre, mio padre - racconta ancora Micaela - non sono stati ritrovati. Solo mio padre è stato riconosciuto perché aveva i documenti in tasca». «Ho perso mio fratello, mio padre, mia madre - dice ancora Gino - aveva compiuto gli anni, 39, tre giorni prima, avevamo festeggiato il suo compleanno. Poi sono venuti i mie parenti, anche dalla Francia e non si con dati pace, hanno scavato anche loro e abbiamo avuto fortuna: abbiamo ritrovato tutti e tre i corpi. Quello di mio padre l’ha riconosciuto mia nonna il il 29 novembre, il giorno di quello che sarebbe stato il suo 40esimo compleanno. Sono tutti sepolti nel cimitero delle vittime. Vorrei che il Vajont fosse ricordato sui libri di scuola».
Micaela Coletti è riuscita a tornare a Longarone la prima volta nel 1987, poi da sei anni è tornata a vivere qui, a Fortugna, vicino al cimitero delle vittime: «La Longarone che c’è adesso non la conosco. Longarone per me sono le trenta case salvate e il cimitero, lì ci sono tutte le persone della mia vita, è quello il mio paese». I sopravvissuti, spiega la presidente del Comitato, sono l’altra faccia del disastro, quella nascosta: «Per noi è importante ricordare perché finché ci sarà il ricordo Longarone e la sua gente non sarà morta». E come altri scampati, con tutto il carico di questo senso di colpa, Micaela sottolinea che la testimonianza serve per aiutare a superare il trauma psicologico: per questo hanno raccolto le voci di chi non aveva mai parlato e le hanno raccolte in un libro, che serva ad altri, «Psicologia dell’emergenza - caso Vajont».
Lorenzo Manigrasso è un fotografo ed è arrivato poco dopo la tragedia a Longarone, con gli agenti della polizia della squadra dei soccorsi. Il primo ad aver scattato immagini: «Ho ripreso i familiari di spalle, volevo rispettare il loro dolore». «Sono arrivato che non era ancora giorno - racconta - sono sceso dalla macchina perché la strada non c’era più. La prima cosa che ho visto è un tratto di binario sollevato da terra, attorcigliato su se stesso come se qualcuno si fosse divertito a fare un ricciolo. Non sapevamo bene cosa fosse successo, siamo partiti con «Longarone è allagat». Invece ho visto una valle brulla, un contorno frastagliato di detriti e legname, in mezzo a cui c’erano cadaveri. Più avanti c’era una grande pozza di acqua, 50 metri, i pompieri col gommone tiravano fuori i corpi, come fosse un pozzo. Ricordo il corpo di una donna giovanissima, era nuda, come tutti gli altri. Un vecchietto mi ha spiegato con calma che prima il movimento d’aria ha buttato giù le case, poi è venuta giù l’acqua con i detriti».
Terreno con speroni di roccia fuori, come ossa spezzate, poi fango tanto fango, pozzanghere poi diventate polvere e dentro quei buchi «i corpi di quella povera gente e - prosegue a fatica Manigrasso - quello che mi ha colpito di più sono i familiari delle vittime, arrivati dopo, anche dall’estero: in silenzio posavano le mani sulle tante bare, non sapevano chi ci fosse, ma lo facevano, come una carezza». Pierluigi de Cesero è il sindaco di Longarone, il primo non nato nel 63, ma la sua famiglia ha subito tre lutti: «Ci sono due comunità: quella di chi ha vissuto il Vajont e quelli che non l’hanno vissuto. Oggi nel comune ci sono 4100 abitanti e a Longarone 2000 persone, come prima del disastro. Duecento-trecento sono i sopravvissuti, quelli che sono usciti vivi dalle macerie o che non erano a Longarone ma hanno perso la famiglia. Quelli che hanno visto Longarone prima. Li vedi passeggiano per le strade con gli occhi del ricordo».
Alcuni sono andati via, «altri, con i sassi nel cuore, sono rimasti e hanno ricostruito». Ci sono anche molti giovani però che non vogliono dimenticare il 9 ottobre del 63 e si sono trasformati in «guide della memoria», impegnandosi in percorsi e iniziative per conservare il ricordo del disastro. «Abbiamo il dovere di ricordare perché tragedie simili non debbano umiliare future generazioni - dice il sindaco - non abbiamo niente da chiedere, ma dobbiamo portare avanti la sacralità delle vittime, e per rendersi conto di ciò che la mano dell’uomo può causare se non rispetta la natura». Per questo motivo è nata la Fondazione Vajont, dall'accordo transattivo, tra il Comune di Longarone e la Società Edison Spa, per i danni causati nella catastrofe. La Fondazione, nata 5 anni fa, realizza corsi per ingegneri, ricerche e studi scientifici sul territorio e sul rischio idrogeologico, vantando anche collaborazioni internazionali con Giappone e Cina. Il progetto è creare un laboratorio permanente di ricerca - spiega il sindaco di Longarone - «perchè la lezione del Vajont venga ascoltata, come finora non si è fatto: dopo il disastro si è continuato a costruire sul Piave, e dati i rischi di esondazione non era il luogo più adatto».
Oggi le commemorazioni per il 45esimo anniversario del disastro del Vajont iniziano a Longarone la mattina in municipio. Poi nel pomeriggio saranno deposte corone a Fortogna, il «cimitero delle vittime» e il vescovo di Belluno celebrerà la messa. La sera una veglia e alle 22.39, l’ora della tragedia, un minuto di silenzio.
Ore 22.39, 9 ottobre 1963, Longarone.
«Ero a letto, avevo 12 anni, stavo aspettando mio papà che tornasse con la mamma. Mio papà lavorava in diga, era uno dei controllori. Aveva iniziato il turno alle 14, alle 22, finito il turno, avrebbe percorso come sempre i dieci chilometri che distavano dal paese e sarebbe andato a prendere mia madre, che lavorava nel centro di Longarone. Si facevano sempre una passeggiata romantica a piedi per ritornare a casa insieme. Erano due innamorati. Ho sentito arrivare papà, da solo, e poi subito andare via con la macchina. Dopo 5 minuti un tuono fortissimo, pensavo fosse il temporale. Anche mia nonna lo pensava, è entrata in camera mia e ha detto chiudo le imposte arriva il ...non ha fatto in tempo a finire la frase. È andata via la luce. Ho sentito come se la mia faccia fosse tirata per i capelli, c’era come un buco che mi voleva risucchiare e la stanza che si allargava e poi restringeva. Il viso come una medusa, appiccicoso e tirato. Avevo le mani lungo i fianchi ma ho avuto un moto di ribellione e ho alzato le braccia davanti a me: dovevo toccarmi il viso, credevo di non averlo più. Così mi sono salvata, sono riemersa da sotto terra, ero stata spazzata via, lontano 350 metri da dove era la mia casa, il mio letto, ero sepolta da fango e acqua. Ma l’acqua non la ricordo, non ricordo il bagnato. Ora dopo 45 anni, devo dormire con la finestra sempre aperta, non riesco a farmi il bagno in una vasca, per bere un bicchiere d’acqua ho bisogno di fare piccoli sorsi, mi manca il respiro. Il mio sogno sarebbe quello di diventare una subacquea».
Lo racconta così il suo 9 ottobre di 45 anni fa Micaela Coletti, presidente del Comitato sopravvissuti Vajont. Domani è il 45simo anniversario del disastro del Vajont che inghiottì 1917 persone. Sono rimasti in 30, i sopravvissuti, quelli usciti vivi dalle macerie di detriti e fango. Altri, superstiti, perché migranti all’estero, per lavoro, ma quella notte hanno perso le loro famiglie. «Ricordo tutto, avevo dieci anni, dormivo con mio fratello di tre anni, i miei genitori erano nell’altra stanza - racconta un altro sopravvissuto Gino Mazzorana, vicepresidente del comitato - all’improvviso un forte vento, la casa ha tremato, pensavo ad un terremoto. Sono volato via, mio fratello mi è sfuggiro dalle mani. Ho fatto un volo di duecento metri. Ho chiamato mia madre, «aiutami, portami via»; poi alle tre di notte ho intravisto le lucine delle torce dei soccorritori, come fiammelle».
Il 9 ottobre 1963 alle 22.39 una massa di due chilometri quadrati di superficie e circa 260 milioni di metri cubi si stacca dal monte Toc - «marcio» in friulano - e precipita nel bacino artificiale creato dalla diga del Vajont. La frana solleva un’onda di circa 50 milioni di metri cubi di acqua, che si innalza per 160 metri e poi ricade nel bacino, e in parte oltrepassa la diga e con il suo carico di detriti e fango schiaccia i paesi a valle: Longarone - che conta l’80% delle vittime - le frazioni di Rivalta, Pirago, Faè e Villanova; il Comune di Castellavazzo, dove Codissago fu il paese più colpito; Erto e Casso furono risparmiati dalla furia delle acque, ma non così le frazioni vicine con 158 morti a Frasègn, Le Spesse, Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino. Anche il cantiere della diga fu travolto e con esso 54 operai.
Circa 1500 le salme recuperate, quasi la metà non sono state riconosciute. «Ho perso due fratelli e una sorella, mia madre, mio padre - racconta ancora Micaela - non sono stati ritrovati. Solo mio padre è stato riconosciuto perché aveva i documenti in tasca». «Ho perso mio fratello, mio padre, mia madre - dice ancora Gino - aveva compiuto gli anni, 39, tre giorni prima, avevamo festeggiato il suo compleanno. Poi sono venuti i mie parenti, anche dalla Francia e non si con dati pace, hanno scavato anche loro e abbiamo avuto fortuna: abbiamo ritrovato tutti e tre i corpi. Quello di mio padre l’ha riconosciuto mia nonna il il 29 novembre, il giorno di quello che sarebbe stato il suo 40esimo compleanno. Sono tutti sepolti nel cimitero delle vittime. Vorrei che il Vajont fosse ricordato sui libri di scuola».
Micaela Coletti è riuscita a tornare a Longarone la prima volta nel 1987, poi da sei anni è tornata a vivere qui, a Fortugna, vicino al cimitero delle vittime: «La Longarone che c’è adesso non la conosco. Longarone per me sono le trenta case salvate e il cimitero, lì ci sono tutte le persone della mia vita, è quello il mio paese». I sopravvissuti, spiega la presidente del Comitato, sono l’altra faccia del disastro, quella nascosta: «Per noi è importante ricordare perché finché ci sarà il ricordo Longarone e la sua gente non sarà morta». E come altri scampati, con tutto il carico di questo senso di colpa, Micaela sottolinea che la testimonianza serve per aiutare a superare il trauma psicologico: per questo hanno raccolto le voci di chi non aveva mai parlato e le hanno raccolte in un libro, che serva ad altri, «Psicologia dell’emergenza - caso Vajont».
Lorenzo Manigrasso è un fotografo ed è arrivato poco dopo la tragedia a Longarone, con gli agenti della polizia della squadra dei soccorsi. Il primo ad aver scattato immagini: «Ho ripreso i familiari di spalle, volevo rispettare il loro dolore». «Sono arrivato che non era ancora giorno - racconta - sono sceso dalla macchina perché la strada non c’era più. La prima cosa che ho visto è un tratto di binario sollevato da terra, attorcigliato su se stesso come se qualcuno si fosse divertito a fare un ricciolo. Non sapevamo bene cosa fosse successo, siamo partiti con «Longarone è allagat». Invece ho visto una valle brulla, un contorno frastagliato di detriti e legname, in mezzo a cui c’erano cadaveri. Più avanti c’era una grande pozza di acqua, 50 metri, i pompieri col gommone tiravano fuori i corpi, come fosse un pozzo. Ricordo il corpo di una donna giovanissima, era nuda, come tutti gli altri. Un vecchietto mi ha spiegato con calma che prima il movimento d’aria ha buttato giù le case, poi è venuta giù l’acqua con i detriti».
Terreno con speroni di roccia fuori, come ossa spezzate, poi fango tanto fango, pozzanghere poi diventate polvere e dentro quei buchi «i corpi di quella povera gente e - prosegue a fatica Manigrasso - quello che mi ha colpito di più sono i familiari delle vittime, arrivati dopo, anche dall’estero: in silenzio posavano le mani sulle tante bare, non sapevano chi ci fosse, ma lo facevano, come una carezza». Pierluigi de Cesero è il sindaco di Longarone, il primo non nato nel 63, ma la sua famiglia ha subito tre lutti: «Ci sono due comunità: quella di chi ha vissuto il Vajont e quelli che non l’hanno vissuto. Oggi nel comune ci sono 4100 abitanti e a Longarone 2000 persone, come prima del disastro. Duecento-trecento sono i sopravvissuti, quelli che sono usciti vivi dalle macerie o che non erano a Longarone ma hanno perso la famiglia. Quelli che hanno visto Longarone prima. Li vedi passeggiano per le strade con gli occhi del ricordo».
Alcuni sono andati via, «altri, con i sassi nel cuore, sono rimasti e hanno ricostruito». Ci sono anche molti giovani però che non vogliono dimenticare il 9 ottobre del 63 e si sono trasformati in «guide della memoria», impegnandosi in percorsi e iniziative per conservare il ricordo del disastro. «Abbiamo il dovere di ricordare perché tragedie simili non debbano umiliare future generazioni - dice il sindaco - non abbiamo niente da chiedere, ma dobbiamo portare avanti la sacralità delle vittime, e per rendersi conto di ciò che la mano dell’uomo può causare se non rispetta la natura». Per questo motivo è nata la Fondazione Vajont, dall'accordo transattivo, tra il Comune di Longarone e la Società Edison Spa, per i danni causati nella catastrofe. La Fondazione, nata 5 anni fa, realizza corsi per ingegneri, ricerche e studi scientifici sul territorio e sul rischio idrogeologico, vantando anche collaborazioni internazionali con Giappone e Cina. Il progetto è creare un laboratorio permanente di ricerca - spiega il sindaco di Longarone - «perchè la lezione del Vajont venga ascoltata, come finora non si è fatto: dopo il disastro si è continuato a costruire sul Piave, e dati i rischi di esondazione non era il luogo più adatto».
Oggi le commemorazioni per il 45esimo anniversario del disastro del Vajont iniziano a Longarone la mattina in municipio. Poi nel pomeriggio saranno deposte corone a Fortogna, il «cimitero delle vittime» e il vescovo di Belluno celebrerà la messa. La sera una veglia e alle 22.39, l’ora della tragedia, un minuto di silenzio.
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