tratto da: lastampa.it
La vita dell'artista africana morta dopo il concerto di Castel Volturno
La vita dell'artista africana morta dopo il concerto di Castel Volturno
ROMA
Era definita da molti «la voce dell’Africa». Icona della lotta anti-apartheid nella sua Sudafrica, da sempre impegnata contro la segregazione razziale e per i diritti civili, Miriam Makeba era un’artista-simbolo, costretta per anni all’esilio dal governo di Johannesburg e tornata a casa dopo un lungo girovagare in Europa e negli Usa solo dopo la fine dell’Apartheid, convinta personalmente da Nelson Mandela. Attivista, ma anche grande cantante, dalla voce calda e dalla grande presenza scenica, spesso accompagnata da strumenti etnici e dai costumi tradizionali della sua terra.
Nata a Johannesburg 76 anni fa, sua madre era una sangoma di etnia swazi e suo padre, morto quando lei aveva sei anni, era uno Xhosa. Makeba iniziò a cantare a livello professionale negli anni ’50, con il gruppo Manhattan Brothers, e poi fondò una propria band, The Skylarks, che univa jazz e musica tradizionale sudafricana. Nel 1959 cantò nel musical jazz sudafricano King Kong insieme a Hugh Masekela, che poco dopo divenne il suo primo marito. Pur essendo già una cantante di successo, alla fine degli anni ’50 Makeba ricavava ancora pochissimi introiti dalle sue registrazioni, e non riceveva royalties; per questi motivi iniziò a ipotizzare di lasciare il Sudafrica per gli Stati Uniti.
Nel 1960 partecipò al documentario anti-apartheid «Come Back, Africa» e fu invitata al Festival del cinema di Venezia; una volta in Europa stabilì di non rimpatriare. Si trasferì a Londra, dove conobbe Harry Belafonte, che la aiutò a trasferirsi negli Stati Uniti e farsi conoscere come artista. In America Makeba incise molti dei suoi brani di successo, come Pata Pata, The Click Song («Qongqothwane» in lingua xhosa) e Malaika.
Nel 1966 Makeba ricevette il Grammy per la migliore incisione folk per l’album «An Evening with Belafonte/Makeba», inciso insieme a Belafonte. L’album trattava esplicitamente temi politici relativi alla situazione dei neri sudafrica sotto il regime dell’apartheid. Nel 1963 portò la propria testimonianza al comitato contro l’apartheid delle Nazioni Unite. Il governo sudafricano rispose bandendo i dischi di Makeba e condannandola all’esilio. Nel 1968 sposò l’attivista per i diritti civili Stokely Carmichael; l’evento generò controversie negli Stati Uniti, e i suoi contratti discografici furono annullati. Makebe e Carmichael si trasferirono in Guinea, dove divennero amici del presidente Ahmed Sekou Tourè e di sua moglie. Makeba si separò da Carmichael nel 1973, e continuò a cantare soprattutto in Africa, Sudamerica ed Europa. Svolse anche il ruolo di delegata della Guinea presso le Nazioni Unite, vincendo il Premio Dag Hammarskj per la Pace nel 1986.
Dopo la morte della sua unica figlia Bongi (1985), Makeba si trasferì a Bruxelles. Nel 1987 collaborò al tour dell’album «Graceland» di Paul Simon. Poco tempo dopo pubblicò la propria autobiografia, «Makeba: My Story». Nel 1990, Nelson Mandela convinse Makeba a rientrare in Sudafrica. Nel 1992 recitò nel film «Sarafina! Il profumo della libertà», ispirato alle sommosse di Soweto del 1976, nel ruolo della madre della protagonista. Nel 2002 prese parte anche al documentario «Amandla!: A Revolution in Four-Part Harmony», ancora sull’apartheid. Nel 2001 ricevette la Medaglia Otto Hahn per la Pace. L’anno successivo vinse il Polar Music Prize insieme a Sofia Gubaidulina e nel 2004 si classificò al 38° posto nella classifica dei «grandi sudafricani» stilata da SABC3. Nel 2005 si dedicò a un tour mondiale di addio alle scene, cantando in tutti i paesi che aveva visitato nella sua carriera. Ma la generosità della cantante la aveva portata, malgrado le precarie condizioni di salute, a cantare a Castel Volturno per un altro artista-simbolo, Roberto Saviano. Le sue ultime note sono per il concerto anticamorra di ieri sera, poi il malore e la morte improvvisa.
Era definita da molti «la voce dell’Africa». Icona della lotta anti-apartheid nella sua Sudafrica, da sempre impegnata contro la segregazione razziale e per i diritti civili, Miriam Makeba era un’artista-simbolo, costretta per anni all’esilio dal governo di Johannesburg e tornata a casa dopo un lungo girovagare in Europa e negli Usa solo dopo la fine dell’Apartheid, convinta personalmente da Nelson Mandela. Attivista, ma anche grande cantante, dalla voce calda e dalla grande presenza scenica, spesso accompagnata da strumenti etnici e dai costumi tradizionali della sua terra.
Nata a Johannesburg 76 anni fa, sua madre era una sangoma di etnia swazi e suo padre, morto quando lei aveva sei anni, era uno Xhosa. Makeba iniziò a cantare a livello professionale negli anni ’50, con il gruppo Manhattan Brothers, e poi fondò una propria band, The Skylarks, che univa jazz e musica tradizionale sudafricana. Nel 1959 cantò nel musical jazz sudafricano King Kong insieme a Hugh Masekela, che poco dopo divenne il suo primo marito. Pur essendo già una cantante di successo, alla fine degli anni ’50 Makeba ricavava ancora pochissimi introiti dalle sue registrazioni, e non riceveva royalties; per questi motivi iniziò a ipotizzare di lasciare il Sudafrica per gli Stati Uniti.
Nel 1960 partecipò al documentario anti-apartheid «Come Back, Africa» e fu invitata al Festival del cinema di Venezia; una volta in Europa stabilì di non rimpatriare. Si trasferì a Londra, dove conobbe Harry Belafonte, che la aiutò a trasferirsi negli Stati Uniti e farsi conoscere come artista. In America Makeba incise molti dei suoi brani di successo, come Pata Pata, The Click Song («Qongqothwane» in lingua xhosa) e Malaika.
Nel 1966 Makeba ricevette il Grammy per la migliore incisione folk per l’album «An Evening with Belafonte/Makeba», inciso insieme a Belafonte. L’album trattava esplicitamente temi politici relativi alla situazione dei neri sudafrica sotto il regime dell’apartheid. Nel 1963 portò la propria testimonianza al comitato contro l’apartheid delle Nazioni Unite. Il governo sudafricano rispose bandendo i dischi di Makeba e condannandola all’esilio. Nel 1968 sposò l’attivista per i diritti civili Stokely Carmichael; l’evento generò controversie negli Stati Uniti, e i suoi contratti discografici furono annullati. Makebe e Carmichael si trasferirono in Guinea, dove divennero amici del presidente Ahmed Sekou Tourè e di sua moglie. Makeba si separò da Carmichael nel 1973, e continuò a cantare soprattutto in Africa, Sudamerica ed Europa. Svolse anche il ruolo di delegata della Guinea presso le Nazioni Unite, vincendo il Premio Dag Hammarskj per la Pace nel 1986.
Dopo la morte della sua unica figlia Bongi (1985), Makeba si trasferì a Bruxelles. Nel 1987 collaborò al tour dell’album «Graceland» di Paul Simon. Poco tempo dopo pubblicò la propria autobiografia, «Makeba: My Story». Nel 1990, Nelson Mandela convinse Makeba a rientrare in Sudafrica. Nel 1992 recitò nel film «Sarafina! Il profumo della libertà», ispirato alle sommosse di Soweto del 1976, nel ruolo della madre della protagonista. Nel 2002 prese parte anche al documentario «Amandla!: A Revolution in Four-Part Harmony», ancora sull’apartheid. Nel 2001 ricevette la Medaglia Otto Hahn per la Pace. L’anno successivo vinse il Polar Music Prize insieme a Sofia Gubaidulina e nel 2004 si classificò al 38° posto nella classifica dei «grandi sudafricani» stilata da SABC3. Nel 2005 si dedicò a un tour mondiale di addio alle scene, cantando in tutti i paesi che aveva visitato nella sua carriera. Ma la generosità della cantante la aveva portata, malgrado le precarie condizioni di salute, a cantare a Castel Volturno per un altro artista-simbolo, Roberto Saviano. Le sue ultime note sono per il concerto anticamorra di ieri sera, poi il malore e la morte improvvisa.
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